23 febbraio 1981, re Juan Carlos salva la democrazia

La notte più lunga di re Juan Carlos inizia nel tardo pomeriggio di lunedì 23 febbraio 1981. Alle 18 e 23 il luogotenente colonnello António Tejero Molina irrompe nelle Cortès seguito da circa 180 delle sue guardie civili gridando di agire in nome del Re, e sotto la minaccia delle armi, ordina a tutti i presenti di stendersi a terra. Quel pomeriggio il parlamento spagnolo è in seduta straordinaria per votare l’investitura del capo del Governo, dunque nell’emiciclo sono riuniti la quasi totalità dei deputati, dei senatori e dei ministri. Il tentativo di putsch è iniziato. E per il paese si tratta di una novità.

Juan Carlos

La Spagna ha una lunga tradizione di colpi di stato militari, in 122 anni ce ne sono stati 52 e quindi nulla di strano se operazioni di questo genere hanno un nome spagnolo: “pronunciamiento”. Quando un gruppo di militari cospiratori, disponendo, in uno o più punti del paese, di forze armate e contando su appoggi interni ed esterni, fa uscire le truppe dalle caserme, “si pronuncia” sulla situazione politica, intima al governo di ritirarsi, lo sostituisce, a volte cambia regime nella convinzione di avere una missione politica e di agire per l’onore del paese. La politica di intervento dei militari è sempre presente quando un problema bruciante si pone alla società spagnola, anche perché l’esercito spagnolo è di un tipo molto particolare, reclutato in un ambiente molto chiuso con un forte spirito di corpo e spesso legato anche a  tradizioni familiari. Inoltre, ancora all’inizio degli anni ’80 le forze armate restano l’unica istituzione ereditata pressoché intatta dal periodo franchista, gli alti ufficiali sono ancora quelli che si sono formati al comando del Caudillo e quindi oltre ad essere nazionalisti e contrari ad ogni politica di autonomia regionale, sono visceralmente ostili alle forze della sinistra e alle novità della Costituzione liberale e democratica. In più i militari in questo periodo stanno pagando un pesante tributo di sangue al terrorismo dell’ETA. I personaggi chiave del tentativo di golpe risulteranno essere tre, ma il malcontento fra gli ufficiali è generale ed è su questo che contano i rivoltosi per rovesciare il governo e dare il potere ad una dittatura militare, garante di ordine e unità nazionale.

La sera di quel 23 febbraio dopo i primi colpi di arma da fuoco che raggiungono il soffitto delle Cortès, ministri e deputati si rannicchiano sotto gli scranni, solo Adolfo Suàrez, primo ministro uscente e il leader comunista Santiago Carrillo rimangono al loro posto, decisi, nel caso, a morire con dignità. Il generale Manuel Gutierrez Mellado, membro del governo, tenta di opporsi ai rivoltosi forte del suo grado militare, ma senza successo. Poco dopo Suàrez viene portato via per essere messo in totale isolamento, mentre Mellado, Santiago Carrillo, Felipe Gonzales, Alfonso Guerra e Augustin Rodriguez Sahagun, costretti ad abbandonare l’aula sotto la minaccia delle armi, vengono confinati in una saletta gelida dove resteranno fino al mattino successivo e in quel momento sono molti a pensare che non c’è speranza di rivederli vivi. Tejero annuncia di essere “agli ordini del Re e del generale Jaime Milans del Bosch, Capitán General di Valencia, città che ha appena occupato con i suoi carri armati”. Milans del Bosch, veterano del franchismo, è un soldataccio arrogante, più presuntuoso che intelligente; fedelissimo alla monarchia però ce l’ha a morte con Suàrez che non l’ha nominato – e a ragion veduta – Capo di Stato Maggiore. Da tempo, a chi lo vuole ascoltare, dice che prima di andare in pensione farà uscire per strada i suoi carri armati. A Valencia Milans del Bosch mantiene una promessa, anche se i veicoli blindati sparsi per la città si fermano ubbidienti ad ogni semaforo. Quella del “pronunciamento”, comunque, è una mania di famiglia visto che un antenato del generale aveva partecipato al colpo di stato del 1817!

In quegli stessi momenti alla Zarzuela – la villa a pochi chilometri da Madrid dove vive la famiglia reale – il sovrano è nel suo studio, sta leggendo dei documenti nell’attesa di una partita a squash e in sottofondo la radio trasmette lo scrutinio per l’elezione del nuovo capo del Governo, ma poco dopo anche in diretta i primi momenti del tentativo di colpo di Stato. In pochi minuti Juan Carlos convoca tutti i suoi consiglieri, in particolare il generale Sabino Fernandez Campo, uomo intelligente, colto e soprattutto liberale, all’epoca Segretario Generale della Casa del Re.

Oltre a Tejero e a Milans del Bosch, però c’è anche un altro personaggio in divisa nella storia del tentato golpe: il generale Alfonso Armada, ex segretario particolare del principe di Spagna, recentemente promosso aiutante del Capo di Stato Maggiore. L’ufficiale, vicino a Juan Carlos fin dagli anni dell’Accademia Militare, adesso è un uomo pieno di rancore perché allontanato dall’entourage del sovrano su istanza di Suàrez, viene soltanto destinato al comando di una divisione montana in Catalogna. Dal suo “esilio” Armanda aveva cercato di mantenere i contatti con l’ex allievo, specie quando la famiglia reale è a Baqueira Beret, sui Pirenei spagnoli, per fare dello sci. Durante un pranzo improvvisato svoltosi il 6 febbraio (in assenza della regina Sofia rientrata precipitosamente a Madrid dove sua madre stava morendo) Armada aveva parlato troppo della sua influenza sugli alti gradi dell’esercito e nel Re, forse, erano nati i primi seri dubbi. Quando poco dopo l’inizio del putsch il comandante della divisione Brunete (che aveva ricevuto l’ordine di circondare Madrid, ma era stato assalito dai dubbi), telefona alla Zarzuela chiedendo di Armada, la risposta di Fernandez Campo è secca e definitiva: “Armada non c’è e non è atteso”. Per il Re ed i suoi collaboratori adesso la situazione è chiara ed in quel momento i militari iniziano a domandarsi se il sovrano sia davvero dalla parte dei rivoltosi. Il complotto, quindi, vacilla fin dai primi istanti, in quanto l’alto ufficiale era l’unico a poter facilmente avvicinare il re, a coinvolgerlo o a far credere di averlo coinvolto. Successivamente interpellato dal re, il generale Armada propone subito di recarsi alla Zarzuela per spiegare quello che sta accadendo. Non c’era niente di strano nel fatto che un vecchio amico si rechi dal suo sovrano, ma Juan Carlos, messo sull’avviso dalla telefonata del comandante della Brunete, con un intuito incredibile, diffida dell’antico istruttore, capisce che c’è qualcosa di poco chiaro e compie il primo passo verso la soluzione definitiva della crisi. Nessun golpista riesce ad avvicinare il re. Per la Spagna inizia una delle notti più lunghe della sua storia, la nazione è “decapitata”, senza governo, né parlamento, molti hanno la sensazione che a sei anni dalla morte di Franco, i sacrifici per la democrazia e le libertà si stiano sgretolando e che la dittatura militare stia per tornare. Ma gli strateghi del colpo di stato che oltre ai carri armati di Valencia avevano piazzato l’artiglieria leggera nei dintorni Madrid e stavano occupando i locali della televisione spagnola hanno completamente dimenticato il Re che dalla Zarzuela, le cui linee telefoniche nessuno aveva pensato di isolare, chiama o fa chiamare a nome suo, i generali e i comandanti delle divisioni e dà l’ordine di non allinearsi con i rivoltosi. Il sovrano poi parla personalmente con tutti i comandanti delle regioni militari della Spagna (fin dai tempi dell’invasione napoleonica del 1798, ogni regione ha un piccolo esercito locale agli ordini di un comandante militare) e come capo supremo dell’esercito, chiede ai suoi interlocutori di rispettare il loro giuramento di fedeltà e di lealtà alla persona del loro comandante e Re. Alla Zarzuela, i fedelissimi Fernández Campo e il marchese di Mondéjar, capo della Casa Reale, cercano di mettersi in contatto telefonicamente con la sede della televisione e, nel momento in cui il direttore della Radio Television Espanola RTV fa capire che l’intero edificio è occupato dai soldati di un reggimento vicino, è ancora una volta Juan Carlos a imporsi con l’ufficiale comandante. Rispondendo al re in persona, capo supremo delle Forze Armate, il giovane capitano non può che dire: “Agli ordini di Sua Maestà”. “La televisione era fondamentale – ha ricordato il monarca nella lunga biografia-intervista raccolta da Josè Luis de Vilallonga – gli spagnoli fin dalle prime notizie della ribellione si chiedevano con angoscia  ‘cosa fa il re?’. Finché non mi fossi pronunciato pubblicamente i miei nemici avrebbero potuto diffondere le voci più disparate”. Quando la squadra della RTV arriva, viene deciso di registrare il messaggio reale in due copie, ognuna delle quali, uscendo dalla Zarzuela, avrebbe preso una strada diversa, dato che nessuno sapeva con precisione quale fosse la situazione all’esterno del palazzo. Preoccupazione inutile, in seguito si saprà che l’occupazione della residenza reale non era prevista nei piani dei congiurati. Intanto la guardia civile al comando di Tejero con il passare delle ore ha perso gran parte del proprio aplomb grazie anche alle abbondanti libagioni consumate al bar delle Cortes. Ma la tensione rimane alta, soprattutto quando il deputato di destra Manuel Fraga Iribarne, offeso probabilmente per non essere stato condotto con Carrillo, Suàrez e Gonzales nella zona riservata ai “leader” comincia a gridare che lui sarebbe tornato a casa e che potevano anche sparargli addosso. E’ lo stesso Tejero ad agguantare Fraga Iribarne per il collo della giacca e a riportarlo in aula.

All’1 e 23 il Re si rivolge alla nazione in uniforme di Capitano Generale del Regno e con tono grave legge l’ordine che aveva indirizzato ai comandanti delle varie armi dell’esercito e poi dichiara: “la Corona, simbolo della continuità e dell’unità della patria, non può tollerare in alcun modo delle azioni o dei comportamenti che pretendano di interrompere con la forza il processo democratico fissate dalla Costituzione approvata dal popolo spagnolo”. Gli spagnoli, vedendo in TV il Re libero e alla guida del paese, comprendono che il colpo di Stato è destinato a fallire. La democrazia è salva e le sorti della nazione sono nelle mani di quest’uomo dal viso accigliato, ma tutto sommato sereno, e la cui voce decisa da sola riempie il vuoto di potere che era stato scavato quella notte. Nel buio in cui la Spagna era stata catapultata l’unica luce veniva dalla Zarzuela. Nel corso della lunga nottata il Re riceve il sostegno di moltissimi capi di stato, Sandro Pertini, Valéry Giscard d’Estaing, Helmut Schmidt, Baldovino del Belgio, Elisabetta II, per il tramite del suo ambasciatore, re Hassan del Marocco, re Hussein di Giordania, il granduca del Lussemburgo, il presidente del Consiglio d’Europa ma, con molto disappunto e qualche interrogativo, non una parola viene da Washington. Il sovrano parla anche con i presidenti dei governi catalano e basco, assicurando che tutto è sotto controllo. In effetti, se il Re non avesse saputo prendere in mano la situazione nessuno avrebbe potuto dire quali sarebbero state le conseguenze. Nelle province gruppi di franchisti si stavano già preparando a sostenere i rivoltosi, mentre i sindaci comunisti e socialisti temevano che anche a livello locale sarebbe potuto avvenire quanto già in corso alle Cortès.

“Come sovrano costituzionale, se vi fosse stato un solo ministro libero delle proprie azioni – ha detto Juan Carlos – avrei dovuto inchinarmi di fronte alle iniziative che questi avesse ritenuto opportuno prendere. Ma tutti i membri del governo erano prigionieri all’interno del palazzo delle Cortes. Il solo potere esistente era quello dei segretari e sottosegretari di Stato riuniti al ministero dell’Interno e in contatto permanente con me. Avevo quindi le mani libere per agire come credevo in quanto capo supremo delle forze armate. Alcune persone hanno detto che quella sera ho travalicato le mie prerogative costituzionali, ma ho la coscienza tranquilla, perché una delle mie grandi preoccupazioni durante quelle ore drammatiche è stata quella di preservare scrupolosamente la legalità democratica”. Accanto al re in quella drammatica notte ci sono la regina, le infante Elena e Cristina, la principessa Irene di Grecia, sorella della sovrana, l’amico e fedele collaboratore Manuel Prado de Colon y Carvajal e il principe Felipe che passa molte ore su una poltrona nello studio del padre, per “imparare cosa si deve fare quando si è re”.

Alle quattro del mattino Milans del Bosch, nonostante diverse ore prima avesse fatto rientrare i carri armati senza però deporre le armi, si arrende, poi è la volta di Tejero, battutosi con tutte le sue forze, ma in modo decisamente irrazionale, per un ritorno al franchismo puro e semplice. Quanto ad Armada, il comportamento del generale, come osserva lo storico Paul Preston, “era stato uno strano miscuglio di superbia e partenalismo che gli aveva fatto credere di poter essere l’interprete dei desideri non espressi di Juan Carlos, diventando nello stesso tempo davanti ai suoi colleghi ufficiali il portavoce del re”. E la assoluta convizione di Milans e di Tejero che le loro azioni avevano il beneplacito reale poteva venire solo da Armada il quale, alla fine, tenta anche una farsesca intermediazione con i golpisti. Il colpo di stato si conclude in una tragicommedia e la popolarità del re aumenta in proporzione al suo coraggio. La notte del 23 febbraio 1981, riconoscono gli storici, Juan Carlos finisce di essere l’uomo succeduto con prerogative reali al generale Franco e diventa re di Spagna a tutti gli effetti.

L’indomani ai figli che gli chiedono se devono andare o no a scuola risponde che “poiché tutto è rientrato nell’ordine non c’è motivo di perdere le lezioni”. Don Juan, il padre del re, che da Estoril in Portogallo aveva seguito gli avvenimenti di quella nottata, al figlio dice soltanto: “sono, se possibile, ancora più fiero di te”. Nel pomeriggio del 24 febbraio Juan Carlos riceve alla Zarzuela i membri del governo e i leader delle varie formazioni politiche. “Il mio incontro con quelle persone – ricorda il sovrano – fu emozionante. Tutti si abbracciavano e da molti occhi sgorgavano le lacrime. Appena arrivato don Santiago Carrillo venne verso di me, mi prese le mani fra le sue e disse ‘Maestà, grazie per averci salvato la vita’ ”. Lo stesso Carrillo neanche sei anni prima aveva dichiarato ad Oriana Fallaci: “non è che una marionetta, un povero diavolo incapace, senza dignità, né senso politico, incastrato fino al collo in un’avventura che gli costerà cara!”. Tutte le forze politiche sono concordi nel riconoscere che solo Juan Carlos poteva sventare un complotto del genere, i militari, infatti, avevano obbedito al loro capo naturale, il Re, il quale in alcuni casi era anche un ex compagno di accademia; avrebbero fatto la stessa cosa se ci fosse stato un presidente della repubblica? Leopoldo Calvo Sotelo dopo quarantotto ore sostituisce Adolfo Suárez a capo del governo. La seduta di investitura inizia con un’interminabile ovazione al Re. Dai banchi comunisti i compagni, Carrillo in testa, salutano il nome del sovrano alzando il pugno. Venerdì 27 febbraio i quattro maggiori partiti organizzano a Madrid la più grande manifestazione pacifica della storia di Spagna; in strada sotto una pioggia torrenziale ci sono un milione e mezzo di persone che gridano “Viva el Rey!”.

“Il merito del re – ha scritto l’editorialista francese Jean Daniel –  è quello di avere fatto sì che dal franchismo nascesse una delle più vivaci democrazie europee”. Ma non solo, Juan Carlos ha salvato la democrazia spagnola dopo averla restaurata. Perché, a ben guardare, la causa profonda e determinante del fallimento del putsch è proprio l’atteggiamento del monarca. Il minimo segno di debolezza da parte sua, la minima esitazione, avrebbero senza dubbio accreditato la tesi – stravagante, ma abilmente propagandata dai militari – di una condiscendenza reale verso i ribelli e avrebbe senza dubbio fatto sprofondare l’esercito nella sedizione. Il vero punto debole del piano era, quindi, la scarsa conoscenza del carattere del re. Gli avvenimenti del 23 febbraio hanno rivelato alla nazione e al mondo la vera personalità di Juan Carlos e hanno messo fuori moda, per sempre, i “pronunciamientos”. In definitiva le menti del complotto non avevano mai seriamente riflettuto sul carattere e sulle idee del sovrano. All’uomo che era stato educato in tre accademie militari doveva piacere per forza l’idea di un sollevamento militare. “Milans e gli altri – ha riconosciuto Juan Carlos – non hanno mai capito ed accettato che potessi essere il servitore della volontà popolare. In altri termini che il re potesse agire come un democratico rispettoso della Costituzione”. Secondo lo storico francese Philippe Nourry gli spagnoli “non solo hanno cominciato a considerare il trono come il più solido baluardo della Costituzione, ma si sono ritrovati ad amare questo capitano intelligente e coraggioso il quale in una notte, più che in cinque anni di impeccabile traiettoria politica, ha conquistato il cuore dei suoi compatrioti. Essi amano il re e l’uomo che c’è in lui”. Trentadue ufficiali vengono deferiti alla corte marziale, Tejero, Milans del Bosch e Armada sono condannati a trent’anni di prigione, un discreto numero di alti ufficiali viene spostato, pensionato o messo in riserva, ma non vi sono ritorsioni sulle forze armate nel loro complesso.

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